Exibart, 01 - julio - 2010

BAIRES: Fervore, Fallimento e Forza

Por Luca Arnaudo

Una scarica d’intelligenza continua s’insinua nella convivenza tra la ricchezza

sfacciata dei quartieri di Puerto Madero o Palermo Hollywood

e i cartoneros che rovistano tra i rifiuti

 

 

Con il tracollo dei Tango Bond, l’Argentina ha vissuto gli spasmi della crisi finanziaria ed economica  con qualche anno d’anticipo. E se farà bene a noi come ha fatto bene a lei - culturalmente parlando, s’intende - non dobbiamo star troppo a preoccuparci del nostro futuro. Perché, una volta superata l’emergenza contingente, il paese “italiano” del Sudamerica ha imbastito una reazione tutta arte, teatro e intelletto. Proviamo a vedere che aria si respira oggi a Buenos Aires

Sulla terrazza della Fundación Proa, davanti alla vecchia darsena della Boca, Esteban Pastorino ha installato due strumenti ottici, costruiti appositamente per una recente esposizione. Puntati sul quartiere che circonda l’elegante edificio in acciaio e vetro della fondazione, tra le più importanti d’Argentina - paese, sia detto per inciso, dotato di lungimiranti leggi che impongono alle impre- se forti investimenti sociali e culturali attraverso apposite istituzioni private - i dispositivi dell’artista portegno distorcono la visione, conferendo a quanto si osserva un’inedita disloca- zione percettiva, come di antichità posticcia: gli autobus sgangherati lanciati lungo la banchina, i rifiuti galleggianti sullo specchio del porto, persino le torme di turisti a passeggio tra le abitazioni sgargianti della vicina Caminito acquistano un’aura inesplicabilmente malinconica, che persiste anche dopo aver lasciato la terrazza.

È possibile che Buenos Aires viva di una simile distorsione, o perlomeno questo è ciò che mantiene buona parte dell’industria turistica locale. Pure la città che, come commentava André Malraux al principio del secolo scorso, per il suo sfarzo era giunta a  mostrarsi come capitale di un impero inesistente, nel tempo e coi suoi rovesci ha saputo sviluppare una sagacia e una resistenza più forti di ogni stereotipo, che si danno nell’arte con rara vitalità. Aliena dal tango  posticcio e dai suoi souvenir, Buenos Aires è una scarica d’intelligenza continua che attraversa le strade, s’insinua nella convivenza tra la ricchezza sfacciata dei  quartieri di Puerto Madero o Palermo Hollywood (sic!) e i cartoneros che attraversano la notte rovistando tra i rifiuti, accende straordinarie esperienze di autogestione - nel centro della capitale uno dei principali alberghi, l’Hotel Bauen, funziona da quasi dieci anni diretto dai propri lavoratori, ospitando al contempo esposizioni, spettacoli teatrali, laboratori di cinema - e chiacchiere da bar o negozio, dalle quali capita non di rado di arrivare a scoperte sorprendenti.

Va da sé che, in una città di 13 milioni di abitanti, ogni  incontro del genere risulta risolutamente soggettivo, ma del resto da qualche parte si deve  pur cominciare. Valga dunque il suggerimento di Jorge, proprietario del Rufián Melancónico, un’arruffata libreria antiquaria nel vecchio quartiere di San Telmo, a conoscere l’immaginario peronista di Daniel Santoro. Ora, chiunque abbia una minima dimestichezza con il diorama argentino sa bene che comprendere appieno e tanto meno dare conto di un fenomeno complesso come il peronismo risulta praticamente impossibile. Pure la proliferante opera di questo gioviale artista 60enne - soprattutto pittore, ma anche scenografo del Teatro Colón, ideatore di collettivi d’arte concettuale come La Estrella del Oriente o, ancora, motore di esperienze cinematografiche indipendenti - attesta una qualità politica dell’arte che, se da un lato per la propria ossessione verso l’approfondimento e la verifica della storia nazionale si mostra tipicamente argentina, dall’altro propone l’inedita possibilità che sia proprio il discorso artistico a meglio funzionare dove  il pensiero razionale  fallisca. Nel caso di Santoro si tratta della creazione di un intero, debordante immaginario: meglio, una mitologia che combina storia e cronaca a ideologia e critica, utilizzando con innegabile intelligenza i mezzi di un’iconografia figurativa primonovecentesca opportunamente virata ai toni di un’ironia dalle aspirazioni epiche.

Si tratta di un’intelligenza condivisa da una tradizione tanto importante quanto perdurante di arte politica sudamericana in generale e argentina in particolare, la quale dalla pittura sociale di Antonio Berni è progressi- vamente transitata per i provocatori happening e ready made di Marta Minujin o gli interventi oggettuali di  Guillermo Kuitca fino alle ultime leve artistiche, intente a irridenti decostruzioni dei dispositivi di potere più diffusi (ritorneremo su alcuni di loro). Tutto ciò, sia chiaro, al netto di più definite operazioni iconologiche di marca politica, anch’esse fortemente persistenti nel contesto iberoamericano, esemplificate nell’opera di uno dei grandi vecchi dell’arte argentina, León Ferrari, storico artista di protesta impostosi negli anni ‘60 per un Cristo crocifisso su un aereo da  combattimento e, di recente, vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia (per chi, nel caso, si trovasse a transitare a queste latitudini, tutti gli artisti appena citati sono studiabili nelle collezioni polverose ma assai ben curate del Museo Nacional de Bellas Artes, nel quartiere della Recoleta, a poca distanza dall’iperattivo Centro Cultural Recoleta, forse l’osservatorio istituzionale migliore per accostarsi al vibrante scenario dell’arte in città).

sopra: Alejandra Tavolini - Tiburón (o Acerca del estudio de los protagonistas...) - 2006 - peluche immerso in formalina - cm 107x63x29 nella pagina a fianco: Il coloratissimo quartiere de La Boca.

 

Si accennava all’ironia di Santoro, ma essa pare più propriamente tipica di gran parte dell’arte argentina e soprattutto distintiva delle generazioni più giovani, per quanto con gradi e finalità diverse. Di nuovo, l’elencazione risulta necessariamente parziale, ma vale la pena dare qui conto della ricerca che da tempo Jorge Macchi va svolgendo intorno a quella zona grigia che è il rapporto tra immagini, vissuto individuale e immaginario collettivo. Tra i più riconosciuti componenti della nebulosa internazionale del post-concettuale - salve ulteriori ancor più improbabili determinazioni, del genere “concettualismo sensibile” - Macchi sa ottenere, con una studiata economia di mezzi, effetti di grande impatto suggestivo: la cronica eventual (dal titolo di una sua recente mostra presso la storica Galleria Ruth Benzacar) dell’affondamento fotografico di una diffusa confezione di fiammiferi argentina risulta in tal senso esemplare, rimandando d’immediato alle più recenti (e per nulla eventuali) cronache economiche del paese. Un’attitudine similare, quanto meno nella capacità di riflettere sulla situazione attuale, détournando la carica politica più tradizionale del discorso artistico argentino, può riscontrarsi anche in artiste come Alejandra Tavolini o Leticia El Halli Obeid. Della prima merita citare almeno la giocosa serie di peluche di squali e mucche messi in formalina à la Hirst, dove la manomissione degli stereotipi visivi più usati dell’art system globale si risolve con salutare buon umore. Della seconda si segnala invece un recente video che, nella ritrascrizione a mano, lungo un viaggio in treno per la periferia disastrata di Buenos Aires, della Carta de Jamaica - uno degli scritti più noti di Simón Bolivar - produce un contundente cortocircuito tra gli ideali rivoluzionari del passato e la durezza del presente (l’opera è compresa nella mostra itinerante Menos tiempo que lugar, collettiva di cui parliamo qui nel box). Forse è stata proprio la crisi che, prima di risultare più semplicemente pandemica, ha affondato il paese nei primi anni Duemila, ad aver prodotto e scatenato le energie delle nuove generazioni che tanto colpiscono nell’incontro con la realtà culturale argentina: qui, infatti, una quantità straordinaria di attività editoriali, espositive e organizzative nasce ogni giorno con sconcertante naturalezza e sprezzo sovrano della mancanza di mezzi. La freschezza dell’arte si apprezza in un circuito di gallerie estremamente ampio e composito che, ogni maggio, trova la sua massima celebrazione commerciale nella fiera annuale ArteBA, la principale del Sudamerica, masoprattutto nel circuito underground della città, brulicante di spazi effimeri riadattati sempre sorprendenti. Le librerie,in tale contesto, svolgono un ruolo fondamentale, il che spiega pure perché la pratica del libro d’artista, assolutamente low cost e spesso sulla soglia della fanzine, sia tanto diffusa da queste parti (nel caso, per chi sia interessato all’argomento, si consiglia una visita a La Libre, multiforme libreria-galleria nel quartiere di San Telmo). In tale pratica, così come nell’uso disinvolto ma sicuro di numerose altre - dal video al disegno all’installazione - una menzione speciale merita il giovane e onnipresente Lino Divas, il cui tratto felicemente ironico sa cogliere con agilità le derive immaginali della società attuale (non solo argentina) per trascenderle in un caleidoscopio divertito e delicato che si dissemina in mostre, volantini, interventi su giornali, happening lungo piste ciclabili, sotto un cavalcavia o dentro appartamenti riadattati a galleria per una notte, e la cui generosità rappresenta più di ogni altro il sentimento che si trae da un’esperienza diretta con la gran città di Buenos Aires.

Forse è stata proprio la crisi dei primi anni Duemila ad aver scatenato

le energie delle nuove generazioni che tanto colpiscono

nell’incontro con la realtà culturale argentina.

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